Menu Stagionali del Mediterraneo: edizione a base vegetale (Primavera) – Introduzione

Nella nostra continua esplorazione della dieta mediterranea, attraverso le opere “ABBIAMO DAVVERO BISOGNO DELLA SOIA?” e “DAI SEMI DEL PASSATO AI PASTI DEL FUTURO”, ci avviciniamo ora a un’adozione pratica di questi principi essenziali, adattandoli alle esigenze del moderno consumatore, non necessariamente vegetariano o vegano. Le discussioni precedenti non solo hanno messo in luce il ricco patrimonio culturale della dieta e la sua relazione simbiotica con l’agricoltura locale, ma hanno anche evidenziato il suo ruolo come modello di pratiche culinarie sostenibili.

Dieta Mediterranea, vegetali e stagionalità

La dieta mediterranea pone grande enfasi sul consumo di verdure di stagione per massimizzare il valore nutrizionale dei pasti. La stagionalità garantisce che le verdure siano raccolte al picco della loro maturità, momento in cui la concentrazione di vitamine e minerali è massima. Ad esempio, il contenuto di vitamina C in pomodori e peperoni è significativamente maggiore quando queste verdure sono raccolte nei mesi estivi. Questo approccio stagionale non solo migliora il gusto e il valore nutrizionale dei prodotti, ma si allinea anche con le pratiche di sostenibilità, riducendo il consumo di energia e l’impatto ambientale legati alla coltivazione in serra e al trasporto a lunga distanza.

Enfatizzare il consumo locale e stagionale di verdure favorisce pratiche agricole sostenibili. Tale pratica sostiene gli agricoltori e le economie locali, diminuisce la dipendenza dalle importazioni e riduce i chilometri alimentari, abbattendo così le emissioni di gas serra. Inoltre, questa modalità preserva la diversità agricola della regione, contribuendo alla salute del suolo e limitando la necessità di fertilizzanti chimici e pesticidi, che tendono ad essere usati più estensivamente nell’agricoltura non stagionale ad alto rendimento.

Prodotti primaverili

I carciofi

Il carciofo selvatico, originario del Medio Oriente e fondamentale per diverse civiltà mediterranee fin dall’antichità, fa derivare il suo nome dall’arabo “karshuf”. Questa etimologia riflette l’eredità culturale di coloro che iniziarono a coltivarlo intorno al IV secolo a.C. Oggi, l’Italia è il principale produttore mondiale di questo ortaggio, con una coltivazione estensiva concentrata in Puglia, nelle pianure di Gela e Catania, e in Sardegna. Secondo “Il carciofo e il cardo”, curato da Nicola Calabrese dell’Istituto CNR di Scienze della Produzione Alimentare a Bari (2010), la Puglia è in testa alla produzione italiana di carciofi, in particolare nella provincia di Foggia, seguita da Brindisi, Bari, Taranto e Lecce.

Documenti storici attestano la presenza di carciofi in Puglia già dal aprile del 1736, e il loro ruolo significativo nella dieta regionale è documentato nel corso del XVIII secolo da autori come Vincenzo Giuliani nelle sue “Memorie storiche, politiche, ecclesiastiche della città di Vieste” (1768) e Gaetano Baselice nel “Giornale enciclopedico di Napoli” (1791). La varietà di carciofi coltivati in Puglia è ampia, includendo il Monopoli e il Putignano (quest’ultimo di un tipo verde particolare), i carciofi precoci di Mola e i tardivi “molesi”, nonché il carciofo di Carovigno, il Violetto di Provenza dalla provincia di Foggia, il Violetto di S. Ferdinando e le varietà salentine, tra gli altri.

Un’altra varietà diffusa in Italia è il carciofo Romanesco. Il carciofo Romanesco, pilastro della cucina romana e del Lazio, è coltivato seguendo protocolli rigorosi per mantenere la sua denominazione come varietà “Castellammare”. È stato il primo prodotto italiano a ricevere il riconoscimento europeo IGP, distintosi per le dimensioni maggiori, le teste di colore viola e un alto contenuto di sodio, potassio, fosforo, calcio e vitamine C e K. Il periodo ottimale di raccolta si estende da inizio marzo a fine aprile, e nella cucina tradizionale romana, il Romanesco è preparato alla giudia e alla romana, tra le altre ricette.

Infine, il carciofo di Brindisi, tutelato dall’IGP dal 2011, ha iniziato a essere coltivato negli anni ’30 nelle aree di Carovigno, Mesagne, Brindisi e San Vito dei Normanni, ed è ora coltivato anche a Cellino San Marco, San Pietro Vernotico, San Donaci e Torchiarolo. Le caratteristiche distintive del carciofo di Brindisi, dovute in particolare alla composizione del suolo sabbioso e calcareo tipico dell’area adriatica di Brindisi, includono una consistenza tenera, un gusto ricco, un elevato contenuto di inulina e flavonoidi, e una bassa presenza di fibre. Queste tecniche di coltivazione, adattate a questo specifico terreno, permettono una maturazione precoce del vegetale, rendendolo disponibile sui mercati già da ottobre. Questo carciofo particolarmente carnoso è ideale per ricette tradizionali come la parmigiana di carciofi o i gratin di carciofi alla brindisina con pangrattato, olive, aglio, cipolla, capperi e menta.

Asparago

L’asparago, originario dell’Eurasia e componente apprezzato di varie diete mediterranee fin dall’antichità, trae il suo nome dal persiano “asparag”, che significa “germoglio” o “lancia”.

Questo termine riflette l’apprezzamento antico per questa verdura, notata per il suo sapore delicato e i benefici nutrizionali. Oggi, l’Italia è uno dei principali produttori europei di asparagi, con coltivazioni significative in regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Secondo “Asparagus in the European Market”, curato da Alberto Bellini dell’Università di Padova (2015), il Veneto è leader nella coltivazione e produzione di asparagi in Italia, particolarmente nelle aree intorno a Bassano del Grappa, seguite da Badoere e Cimadolmo. Documenti storici, inclusi quelli di età romana, testimoniano la presenza di asparagi in queste regioni, evidenziando il loro ruolo sia in ambito culinario che medicinale.

In Italia, la varietà di asparagi coltivati è vasta, includendo gli asparagi bianchi di Bassano, noti per il loro sapore tenero e leggermente dolce, e gli asparagi verdi di Altedo, più robusti e dal gusto nocciolato. Tra le varietà del Veneto spicca l'”Asparago Bianco di Bassano”, che ha ottenuto lo status di Indicazione Geografica Protetta (IGP), attestando la sua storica coltivazione nell’area risalente al XVI secolo. Questa varietà è celebre per i suoi spessi gambi bianchi raccolti all’inizio della primavera, da aprile a giugno, ed è particolarmente apprezzata per la sua consistenza cremosa e il gusto delicato. L’asparago verde di Altedo, un altro pilastro della cucina italiana, segue un rigoroso protocollo per mantenere la sua designazione come cultivar “protetta” secondo gli standard agricoli italiani. Fu uno dei primi ortaggi a ottenere lo status nazionale IGP, distinguendosi per i suoi gambi verdi vibranti, una consistenza soda e un ricco contenuto di vitamine A, C, E e K, oltre a folato e ferro. Il periodo ottimale di raccolta si estende da marzo a maggio, e nella cucina tradizionale italiana, l’asparago di Altedo è spesso preparato “alla Milanese” con burro e parmigiano o utilizzato in risotti e frittate. L’asparago viola di Albenga, una nuova cultivar che sta guadagnando popolarità dal suo sviluppo alla fine del XX secolo, è coltivato principalmente in Liguria. Il suo colore distintivo e il sapore leggermente più dolce e nocciolato rispetto al suo omologo verde sono dovuti a un maggiore contenuto di zuccheri e a un minore contenuto di fibre. Queste caratteristiche, unite alla sua straordinaria apparenza, lo rendono ideale sia per applicazioni crude che cotte, arricchendo i piatti tradizionali italiani sia nel sapore sia nell’aspetto visivo.

Carota

La carota, derivante dal greco “karoton”, è stata collegata da alcuni filologi a “càro”, che significa carne, forse indicando la carnosità del vegetale. Altri suggeriscono un legame con l’aggettivo “krokotos”, che descriveva il colore dello zafferano, forse per le somiglianze cromatiche con le radici più antiche. Storicamente, le carote variavano in colore, includendo il viola, il violetto e il giallo, come si evince nei dipinti di scene di mercato del XVI secolo di Pieter Aertsen e Nicolaes Maes. Nel stesso secolo, Costanzo Felici parlava di carote di un “colore vermiglio”, mentre solo nel secolo successivo Giacomo Castelvetro descriveva carote “rosse e gialle”. Nel XVII secolo nei Paesi Bassi, si narra che gli agricoltori abbiano deliberatamente selezionato carote arancioni per onorare la Casa d’Orange, risultando in una varietà sia più dolce sia più delicata dei suoi predecessori selvatici, una scelta successivamente apprezzata in tutta Europa.

Oggi, oltre alla classica arancione, persistono varietà di carote viola, gialle e persino bianche, sebbene quest’ultima non sia una vera carota ma piuttosto una pastinaca, una radice della stessa famiglia dei cavoli. Il viaggio tra le varietà italiane di carote inizia con la regina delle carote pugliesi, la carota di Polignano. La sua caratteristica distintiva è il colore esterno della radice: dal giallo pallido al viola intenso. Piantata alla fine dell’estate, la sua raccolta avviene tra dicembre e marzo, e ogni fase aderisce ai metodi di coltivazione tradizionali con semi prodotti annualmente dagli agricoltori che selezionano le piante più sane preservando le sfumature variate. La raccolta è fatta manualmente o con l’aiuto di una forca perché la forma particolarmente irregolare delle carote rende quasi impossibile la raccolta meccanica.

Dopo la raccolta, la radice viene collocata in casse di legno con la stessa acqua salmastra utilizzata per l’irrigazione per pulirla dalle impurità. La carota di Polignano è notevole per avere un contenuto di zuccheri inferiore (in media circa il 22% in meno di glucosio, fruttosio e saccarosio rispetto alle carote standard) anche se l’indice di dolcezza relativo—la percezione di dolcezza al palato—è molto simile a quella delle carote comuni. Può essere consumata cruda o cotta, ed è anche utilizzata nella produzione di marmellate che ampliano la portata di mercato della varietà, aumentando così l’interesse. I produttori di carote hanno formato l’associazione “La bastinaca di San Vito” per promuovere e incoraggiare la coltivazione di questo significativo prodotto tradizionale. La carota di Polignano è attualmente un presidio Slow Food ed è elencata nel registro nazionale dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali come prodotto agricolo tradizionale pugliese.

Spostandoci a sud verso il Salento, tra Tiggiano, Tricase e Specchia nella provincia di Lecce, viene coltivato un altro ecotipo: la pastanaca ti Santu Pati, meglio conosciuta come la carota di Sant’Ippazio, chiamata anche “carota giallo-viola di Tiggiano”. È più grande della varietà di Polignano, solitamente bianco-giallastro ma macchiato di viola, e notevolmente croccante. Viene venduta durante la fiera locale di Sant’Ippazio il 19 gennaio, ed è anche legata alla festa della Candelora a Specchia e San Biagio a Corsano, tutte occasioni propiziatorie per la fertilità della terra. Un ecotipo simile è coltivato anche in Calabria, la prestinaca del promontorio del Poro, spesso consumata bollita con aceto. La nostra ultima deviazione ci porta al Gargano, dove nei campi sabbiosi dell’agro di Zapponeta viene coltivata una varietà di carota chiamata pastnoc, conosciuta localmente come “Imperatore” e popolare in tutti i centri vicini.

In Abruzzo, infine, la carota dell’Altopiano del Fucino, coltivata tra i 650 e i 680 metri sul livello del mare, vanta una designazione IGP europea dal 2007. Questa carota è coltivata su circa 2.300 ettari dei 12.000 coltivabili nella pianura del Fucino, rappresentando circa il 30% della produzione di carote in Italia. Il suo significativo volume e la presenza di impianti di trasformazione consentono la trasformazione di questo ortaggio in cubetti e succhi. Questa carota è tipicamente cilindrica con la punta arrotondata, presenta una pelle liscia e intensamente arancione, e una polpa croccante, dolce e robusta. La IGP “Carota dell’Altopiano del Fucino” comprende carote della specie Daucus carota, derivanti da varie varietà come Maestro, Presto, Concerto, Napoli, Nandor e Dordogne, prodotte nell’area del Fucino.

Di Antonio Caso